Ndôma al San Giòrs

‘Ndôma al San Giòrs.
“Da quando si consolidano i ricordi, in un bambino?” domandai al mio commensale. Il professor Massimo Parini era un luminare di neuropsichiatria infantile, e lo avevo incontrato per caso lì a New York per un impegno universitario. Ci avevano prenotato un tavolo al mitico Le Cirque e stavamo affrontando un’ottima Lobster Salade; anche se lo avevo appena conosciuto, avevo capito subito al volo che l’esimio professore era un gran gourmet, con quel suo bel pancione e l’aureola di capelli grigi che parevano irradiarsi sotto ad una pelata molto accademica. Tanto per dire qualcosa, avevamo incominciato a parlare della cucina italiana, noi due italiani da molto tempo lontani dalle nostre città.
Parini aveva lasciato l’Italia e si era trasferito alla Columbia University, lì nella Grande Mela. Io invece non mi ero allontanato troppo: ero rimasto in Italia, ma in una zona del centro che era assolutamente diversa dalla Torino in cui ero nato.
Fu automatico passare, da una disquisizione quasi astratta sulla gastronomia italica, ai nostri ricordi personali: lui fiorentino e io torinese. I sapori, i gusti, i profumi della nostra infanzia.
“Mah, possiamo dire che i ricordi si sedimentano in noi fin dalla nascita, anzi forse anche da prima. Ma per i primi anni si può solo parlare di memoria subliminale, di qualcosa che fa parte del bagaglio della nostra personalità ma di cui non ci rendiamo neanche conto. I veri ricordi, quelli veri e possiamo dire
concreti, si hanno in genere dai cinque anni in poi.”
Cinque anni. I miei cinque anni; cioè Torino 1950.
Ecco che lì, in quel posto lontanissimo, davanti a quel piatto che non c’entrava niente, parlando con quella persona che non aveva nulla a che fare con la mia vita, mi sentii improvvisamente trasportato indietro e lontano. Ero al San Giòrs, a Torino, alle porte di Porta Palazzo.
Profumo di bollito al carrello, vetri appannati che davano sulla viuzza che sbucava in corso Giulio Cesare, i tram crema verdolini. Poco più in là c’era la stazione della Ciriè-Lanzo, con i suoi binari a scartamento ridotto. Mi faceva paura: sui binari erano allineati decine e decine di vagoni passeggeri e di vagoni merci sventrati dalle bombe e dalle mitragliatrici degli aerei da caccia. C’erano anche carcasse di locomotive a vapore, con la grande caldaia cilindrica squarciata da chissà quali ordigni terrificanti. Dalle piaghe di ogni vagone, dai locomotori di quei treni morti mi pareva di sentire il racconto di quella guerra che mi era stata risparmiata, poiché ero nato circa sei mesi dopo la sua fine, ma che era ancora ben presente dappertutto.
Cinque anni, il mio compleanno, cioè novembre 1950.

“‘Ndôma al San Giòrs.” Aveva detto mio padre a mônsü Gallina, che insieme a madama Gallina abitava come noi al terzo piano della casa di mattoni chiari che stava all’angolo fra il lungo Dora e via Cigna. “Corso Emilia quaranta!” mi avevano insegnato i miei genitori terrorizzati dalla possibilità che io potessi perdermi e non sapessi dire dove abitavo. “Corso Emilia quaranta!” dicevo con orgoglio.
Era tutto un mondo, il mio piccolo mondo, quel corso Emilia quaranta. Al terzo piano, abitavamo noi. Mi resi ben presto conto che eravamo dei privilegiati, in quel piccolo mondo, perché c’erano due categorie di inquilini, in corso Emilia quaranta: c’erano quelli che entravano in casa dal pianerottolo, che avevano le grandi porte-finestre che davano sui balconi sulla via e sulla Dora e, soprattutto, che avevano il gabinetto in casa; e c’erano invece quegli altri che entravano in casa dai lunghi balconi sul cortile e che, cosa fondamentale, avevano il cesso in comune in fondo ai ballatoi.
Mônsü e madama Gallina erano molto amici dei miei genitori, erano vicini di pianerottolo, porta a porta, da non so quanti anni, ma continuavano a darsi rigorosamente del lei. Mônsü Gallina era l’unico in tutto quel grandissimo edificio ad avere l’automobile; non perché fosse ricco, ma per due buoni motivi: il primo, perché madama Gallina, per via di una qualche malformazione all’anca, non poteva quasi camminare; il secondo, perché lui era un meccanico, un bravo meccanico, e aveva una piccola officina in via Chiesa della Salute.
Era una Lancia Augusta enorme e nera dei primi anni trenta, molto diversa dalle automobili aerodinamiche che si vedevano in giro per la città; aveva un gran radiatore dritto, un cofano enorme sotto al quale spuntavano due parafanghi che sembravano orecchie di elefante.
“‘Ndôma al San Giòrs.” Credo che fosse la prima volta che mi portavano al ristorante, forse era anche la prima volta che salivo “in macchina”. Non ce ne sarebbe stato bisogno, perché fra corso Emilia quaranta e il San Giòrs non c’è una gran distanza: bastava scendere sul lungo Dora, andare a sinistra, attraversare il piccolo ponte del Balôn, fare qualche centinaio di metri fra le casette decrepite, passare il canale degli Schiavoni e si era bell’e arrivati. Ma madama Gallina non camminava; e poi, quello era un giorno di festa: si andava al ristorante e tanto valeva scialare fino in fondo andandoci in macchina. Mio padre si era offerto di pagare la benzina: quelli erano tempi in cui ogni goccia era preziosa.
Mi pareva di capire, a pelo, che era un momento straordinario, per loro: la guerra era finita davvero, ormai, la fame era finita. Mia madre e madama Gallina assaggiarono il pane croccante e ricordavano l’orribile pane di riso. Intanto arrivavano antipasti su antipasti: le acciughe al verde, i tômìn elettrici (“non per il bambino, che sono piccanti!” “ma lascialo provare, che deve farsi grande…” “vuoi assaggiarne un po’?”. E io avevo deciso che mi piacevano un mucchio). E poi i pôvrùn con la bagna caôda, e il vol-au-vent con la fonduta e il salame cotto di Cocconato.
Mio padre raccontò di quella volta che era stato mitragliato da un caccia mentre tornava da Druento con un sacco di patate messo di traverso sulla canna della bicicletta; si era salvato per miracolo buttandosi nel fosso con bicicletta e patate.
Mia madre e madama Gallina si guardavano stupite ad ogni portata, abbagliate da tanta abbondanza.
“Sôma al San Giòrs…” si era limitato a spiegare mio padre. E tutti avevano annuito.
Poi c’erano stati gli agnolotti al sugo di brasato, mentre le due signore protestavano che per loro quasi quasi bastava. Ma doveva ancora arrivare il bollito.
E intanto un omone aveva spinto un carrello fino al nostro tavolo.
“La coscia?”
“Solo un po’… grazie.”
“La testina? il cotechino? la gallina? il muscolo? la scaramella?” e avanti a tirare fuori sgocciolanti pezzi di carne dal carrello che fumava, a tagliarne fettine e pezzetti con il gran coltello sul tagliere di legno segnato dal tempo e da mille piccole rughe che parlavano di generazioni e generazioni di bolliti.
Il San Giòrs… ecco il mio primo ricordo: quell’omone con il grembiule lungo fino ai piedi, lustro e grasso come il cotechino che aveva infilzato con un forchettone a due punte e che stava affettando con il coltello affilato sulla cote.
“Beh, meno male che sul lungo Dora hanno piantato di nuovo gli alberi.”
“Ma sono piccoli… quelli di prima della guerra, sì che erano alberi.”
“E li hanno tagliati tutti per far legna da bruciare….”
“Cresceranno. Cresceranno, vedrai…”
Mentre crescevo, il San Giòrs continuava a essere il San Giòrs e, nei giorni di festa, qualcuno diceva “‘Ndôma al San Giòrs.” L’omone continuava ad affettare bolliti nella lunga sala con il pavimento di legno scricchiolante.
Continuai ad andarci anche io, di tanto in tanto, quando ero ormai adulto. L’omone era invecchiato, ma era stato sostituito dal figlio, identico a lui. E avanti con gli antipasti, con gli agnolotti e con il bollito…
Altri anni, molti anni. A metà degli anni ottanta lascio Torino con l’intenzione di non tornarci mai più: era una città grigia, plumbea, triste e cattiva. In trent’anni ci ho rimesso piede ben poche volte.
Però non ho mai perso i contatti con i tanti amici torinesi, soprattutto quelli del liceo e dell’università.
Mi raccontavano di Torino, della crisi delle industrie, della necessità di un cambiamento, dell’immigrazione inarrestabile di poveri cristi dal terzo mondo.
“E il San Giòrs?” mi venne da domandare un paio di volte, nel corso di tutti quegli anni.
“Mah… non è più lo stesso… hanno cambiato gestione… dicono che si mangia male. Dicono; perché io non ci sono più andato.”
Mi resi conto che nessuno ci andava più.
“Lo hanno trasformato in un ristorante fusion…” mi disse qualcun altro parecchio tempo dopo, mettendomi una gran tristezza.
“Lo hanno chiuso definitivamente.” mi comunicò poi un altro ancora. Che peccato.
“Torino sta tornando ad essere bellissima, con le Olimpiadi…” seppi più tardi da molte voci “c’è il recupero del turismo culturale e gastronomico, c’è Terra Madre, lo Slow Food, Eataly… Hanno risanato il Quadrilatero romano, ci sono tante belle cose da vedere. Si rivedono le montagne!”
Molto di recente, pochi mesi fa, all’inizio di questo 2012 che oggi volge al termine, sono ritornato a vedere Torino per restarci qualche giorno.
Ero, come al solito, con il mio cane Beppe. Furono i piedi a portarmi automaticamente in corso Emilia quaranta, mossi da un istinto che niente poteva fermare.
Ecco il ponte sulla Dora, ecco il casone di mattoni chiari.
Ecco il balcone al terzo piano sul quale mia madre mi aspettava quando tornavo da scuola per salutarmi appena scendevo dal tram; a volte, sul balcone accanto, si affacciava anche madama Gallina.
Tutti morti, ovviamente, dopo tanti anni.
Ecco gli alberi, quelli che stavano ripiantando nel 1950: sono cresciuti, eccome. Sono proprio dei begli alberi, adesso. Non so perché ma sento una punta di orgoglio: hanno la mia età; quando ero piccolo, li ho visti mentre erano piccoli. Mi viene in mente Carducci che parla ai cipressi, e mi sembra che anche loro mi rispondano.
Ecco il lungodora, con Beppe che annusa gli alberi e alza la gambetta.
Ecco il ponte, e poi piazza Borgo Dora, in cui troneggia un assurda mongolfiera: ma proprio lì, dovevano metterla? Nasconde i binari della Ciriè-Lanzo, che da anni non sono più collegati a niente. C’è rimasta solo una vecchia locomotiva, di quelle scampate alla guerra e al cambiare dei tempi.
Ecco il Balôn dove venivo a comprare quattro carabattole con mio padre e con mio nonno. Il canale degli Schiavoni, che era una vera fogna a cielo aperto dalle cui sponde nascevano direttamente alcune vecchie case di ringhiera, è stato interrato: le case ci sono ancora, tali e quali, ma adesso si affacciano su una piacevole stradina di pavé.
Non è poi così diverso, da allora. Eppure tutto lo è, per me.
Giro a sinistra per andare in corso Giulio Cesare.
Ecco, di sguincio, l’insegna dell’Albergo Ristorante S. Giors già Ponte Dora.
Che strano: visto che è chiuso da tanti anni, come mai l’insegna sembra meno decrepita di quel che dovrebbe?
Allungo il collo per guardare dentro da una delle finestre che danno sulla viuzza: all’interno sembra tutto uguale. Non capisco. Sulla porta finestra, ecco un menu scritto a mano su un foglio di carta da macellaio. Antipasti: vitello tonnato, peperoni con la bagna caôda, acciughe al verde…. non posso crederci. Primi: agnolotti al sugo di brasato, tajarìn… non può essere vero. Secondi: bollito… ma roba da matti. Mi gira la testa.
Entro. Stessi profumi, stesso pavimento di assi cigolanti. Tavoli e sedie di una volta, qualche bel pezzo di arredamento moderno.
“Abbiamo aperto da pochi giorni…” mi dice uno con una faccia simpatica e i capelli un po’ da poeta “…ho fatto la follia di rilevarlo, di restaurarlo come era, di aprire anche le camere dell’albergo facendole arredare, ognuna, da un pittore contemporaneo.”
Scopro che anche lui, Giancarlo, è un artista, a modo suo. Sprizza entusiasmo, sprizza creatività e ottimismo.
Non solo, penso: è anche uno con cui vale la pena di fare amicizia. E non solo, penso ancora: mi fa venire voglia di venire più spesso a Torino, che è tornata ad essere bellissima.
Non alla ricerca di un tempo perduto, per carità.
Senza rimpianti, con un po’ di nostalgia per quello che è stato, e con molta gioia per quello che c’è ancora.
Telefono a qualche vecchio amico: “Ci vediamo?” “Con piacere! Dove?” “Ma al San Giòrs, no?”
Grazie, Giancarlo.

Giorgio Caponetti – Natale 2012